Nel precedente articolo ho pubblicato una mia riflessione sul sistema di valutazione delle pubblicazioni (publish or perish) in ambito accademico, e sulle varie proposte di convivenza con esso. Nata nel contesto del corso The Hitchhiker’s Guide to the Academic Galaxy di Francesco Chiodelli, ho voluto condirla con un po’ di teoria marxista – non solo per un certo gusto del retro, ma perché credo che certi problemi possano essere pensati, e tanto più affrontati, solo con con una lente di teoria critica e sociale.
Certo, in quanto ingegnere il pensiero critico non è certo il mio forte, ma fa sempre bene allenare muscoli analitici poco usati. Ecco che sempre il corso di Francesco mi dà la possibilità (e l’obbligo, se voglio superare l’esame) di fare “sollevamento pesi” con un altro concetto. Parliamo del capitale sociale, e del suo posto centrale nella carriera di unə ricercatorə.
E visto che questo giro il marxismo è uscito da sé, ho voluto usare un’altra lente ancora per parlare di due pubblicazioni che trattano il capitale sociale: i problemi sistemici e il binomio disperazione/strategia tanto caro a chi, come me, pensa in modo ossessivo al collasso ecologico. Il tutto con un gusto solarpunk, che ci piace.
Nota: nel testo ho scelto di utilizzare delle forme italiane neutre (ə, ɜ) dove non era possibile costruire frasi che evitassero di specificare il genere. Nei casi in cui uso maschili o femminili, questi non vanno letti come forte neutre.
Dal punto di vista lavorativo, il mondo accademico è un campo altamente competitivo, dove una costante misura della performance e una categorizzazione basata su criteri quantitativi coesiste con sistemi apparentemente informali e una limitata comunicazione delle “regole del gioco”. A questo si aggiunge la condizione di insicurezza di chi è costrettə a rimanere nel precariato, e al contrario, la sicurezza e le garanzie di chi ottiene posizioni fisse. Questa dissonanza, unita a una probabilità di successo che – misurata come la percentuale di persone con dottorato di ricerca che ottengono una cattedra – si aggira intorno al 10%1, genera facilmente un senso di disperazione.
Ma alla disperazione rispetto alle possibilità di poter invertire gli effetti della gestione by numbers succedono anche varie strategie di adattamento. Una di queste strategie è la formalizzazione di alcune delle condizioni che garantiscono o meno buoni risultati nella lotta per posizioni accademiche, in modo da esplicitare questi meccanismi e poterli sfruttare a proprio vantaggio. Tenendo conto, come detto, del forte grado di informalità di alcuni dei processi decisionali che influenzano l’avanzamento di carriera dellɜ ricercatricɜ, il concetto di “capitale sociale” appare come fondamentale nello sviluppo di queste strategie.
Il concetto di capitale sociale viene introdotto dal sociologo Pierre Bordieu negli anni ‘80 del Novecento: all’interno della società non sarebbe solo la ricchezza materiale a conferire a certi individui maggiore o minore possibilità di ottenere certi risultati desiderabili, ma anche una serie di risorse simboliche, tra cui le “risorse effettive o potenziali legate […] all’appartenere a un gruppo”2, ovvero il capitale sociale; nella società capitalista poi, questo capitale tanto economico quanto simbolico è accumulato (anche se con una composizione variabile) principalmente dalla borghesia dominante e in misura minore dal proletariato subalterno, perpetuando la stratificazione sociale. A questo approccio segnatamente politico è seguito poi, senza sostituire completamente il primo, uno studio più tipicamente economico, volto a indagare come “le relazioni sociali e le interazioni sociali hanno un effetto su i risultati economici e sociali3” tramite strumenti analitici statistici o modellistici.
Un esempio di questo tipo di studi riferiti al campo accademico è quello condotto da N. Epstein e C. Elhalaby (2023) sugli effetti del capitale sociale nel determinare la continuazione e il successo della carriera accademica delle persone dottorate4. Attraverso l’analisi di un questionario sottoposto a variɜ post-doc tedeschɜ, e tenendo conto di diverse variabili di controllo tra cui il numero di pubblicazioni e l’importanza attribuita alla flessibilità e all’autonomia nel lavoro, emerge come il capitale sociale rappresentato dal rapporto collɜ tutor e con altrɜ scienziatɜ (valutati su una scala di Likert da 1 a 5) abbia un effetto significativo nel determinare la volontà di continuare la carriera accademica – e si suppone quindi anche le possibilità di successo in essa.
L’importanza di questo risultato deriva dal fatto che “il talento da solo potrebbe non bastare” e sta allə singolə dottorandə coltivare relazioni utili al proprio successo. Come viene espresso nelle sezione “implicazioni pratiche” dell’articolo, la ricerca di tutor attivɜ nella promozione e nell’introduzione dellə (post-) dottorandə a un network internazionale, e l’autopromozione e la coltivazione di contatti con cui scrivere paper sono tattiche necessarie per ottenere buoni risultati.
Nonostante le autrici esplicitino il problema rappresentato dalla mancanza di prospettive a lungo termine nel campo accademico, emerge una componente normativa dei suggerimenti proposti per la carriera delle persone dottorate. Come sottolineato da M. Järvinen e N. Mik-Meyer (2024)5 è ormai affermata una doxa, una visione tacitamente accettata, di come una persona in campo accademico dovrebbe comportarsi: nello specifico, allungare il proprio CV attraverso la coltivazione di contatti accademici influenti che garantiscano numerose pubblicazioni e processi di revisione paritaria più semplici.
Questo si riflette nelle risposte date da professori associati (solo uomini) di scienze sociali ed economiche europei, principalmente danesi, sul tema dei network accademici in relazione al successo nel campo. Le ricercatrici riscontrano come la maggior parte dei professori descriva molto apertamente le strategie (parola che emerge spesso nelle stesse interviste) adottate per accrescere il proprio network. Paradigmatica è la “caccia” per professori statunitensi (anch’essi quasi esclusivamente uomini), considerati come quelli con migliore reputazione e quindi più desiderabili, e le forme di etichetta necessarie a ottenere effettivamente dei contatti senza apparire inopportuni – ma vengono anche descritte la ricerca di editor, revisori di riviste internazionali, co-autori importanti nel proprio campo.
Rispetto a questa maggioranza, le ricercatrici osservano anche una minoranza caratterizzata dal rifiuto dell’impegno nel networking e delle altre tattiche utili a garantire un elevato numero di pubblicazioni. Nelle loro risposte, questi partecipanti allo studio si dimostrano apertamente critici nei confronti dei comportamenti adottati dalla maggioranza e indicano quindi come non sia presente un pacifico consenso su quanto l’accumulazione strategica di capitale sociale sia un bene per unə ricercatorə, come le conclusioni dello studio di Epstein e Elhalaby potrebbero invece suggerire.
Ma significativamente, anche questa minoranza critica non mette apertamente in discussione la struttura di valutazione basata sulla misura quantitativa delle pubblicazioni (in breve, publish or perish). Nonostante il loro rifiuto da parte di alcuni della strategia (non solo verbale, ma valutato anche in base al loro numero di pubblicazioni), non emerge nelle loro interviste una condanna della doxa che divide chi ha successo da chi non lo ha.
Anche quando la strategia diventa un campo di conflitto, rimane quindi, sia in chi la pratica che in chi la condanna, una costante, che riconduce alla radice di disperazione che rende necessaria la stessa strategia. La disperazione come impossibilità di uscire dalla doxa che rende accettabile una situazione ingiusta, che per quanto spinga nell’esplorare le caratteristiche del campo di valori che si abita non permette di teorizzare tattiche davvero trasformative.
Note:
Il titolo dell’articolo è liberamente tratto dalla raccolta “Solarpunk: Dalla disperazione alla strategia” edita da Future Fiction.
1 https://www.istat.it/it/files/2018/11/Report-Dottori-di-ricerca-26nov2018.pdf.
2 Bourdieu, P. (1986). The Forms of Capital. In J. Richardson (ed), Handbook of Theory and Research for Sociology of Education, Westport, CT: Greenwood (pp. 241–258). Traduzione dell’autorə.
3 McClain, W. (2015). A Pathway Forwards for the Social Capital Metaphor. In Review of Social Economy (Vol. 74, Issue 2, pp. 109–128). Informa UK Limited. https://doi.org/10.1080/00346764.2015.1089106. Traduzione dell’autorə.
4 Epstein, N., & Elhalaby, C. (2023). Social capital in academia: How does postdocs’ relationship with their superior professors shape their career intentions? In International Journal for Educational and Vocational Guidance. Springer Science and Business Media LLC. https://doi.org/10.1007/s10775-023-09580-4.
5 Järvinen, M., & Mik-Meyer, N. (2024). Turning Social Capital into Scientific Capital: Men’s Networking in Academia. In Work, Employment and Society. SAGE Publications. https://doi.org/10.1177/09500170241234602.