Pubblica o muori e i processi trasformativi

Publish or perish, ovvero «il tuo contributo scientifico vale quanto il numero che attribuiamo alle tue pubblicazioni». È questo uno degli argomenti principali del corso The Hitchhiker’s Guide to the Academic Galaxy del prof. Francesco Chiodelli, che sto seguendo durante il mio dottorato. Un corso che offre delle esperienze di prima mano sul mondo accademico e che non le manda a dire: mi basta ricordare di aver scoperto come fanno a essere pubblicati così tanti libri accademici in Italia (spoiler, chi li vuole pubblicare deve pagare l’editore) e di aver capito quanto le riviste internazionali a pagamento siano una truffa per i contribuenti.

Uno degli elaborati necessari per superare il corso è il riassunto di una serie di articoli sulla vita delle persone che fanno dottorato nel clima della misura costante del lavoro scientifico. Misura basata sulle pubblicazioni nelle suddette riviste internazionali, che ha comportato negli ultimi anni degli stravolgimenti con delle dimensioni che non mi aspettavo. Nel riassumere questi articoli ho provato anche a metterci del mio, portando avanti un parallelo tra logica del valore marxiana e il publish or perish – non tanto per allenare il muscolo di teoria critica quanto per trovare un senso alla centralità di questo sistema nella vita mia e di chi fa un dottorato.

Nota: nel testo ho scelto di utilizzare delle forme italiane neutre (ə, ɜ) dove non era possibile costruire frasi che evitassero di specificare il genere. Ho fatto questa scelta nonostante i problemi di leggibilità che può comportare, essendo i testi originali scritti in inglese e spesso con un’attenzione all’inclusività. Inoltre ho preferito citare i soli nomi e cognomi delle persone che hanno scritto gli articoli invece che riportare una bibliografia completa, sia per dare un tono meno “professionale” che per non appesantire il testo – chi volesse ritrovare il testo originale può cercare il nome nella raccolta sopra citata.


La raccolta di articoli PhDs under publication pressure pubblicata da Nature nel 2019 si propone come uno sguardo d’insieme al dottorato nell’attuale contesto accademico. In tutta la raccolta un tema emerge come il principale, ovvero il sistema di valutazione dellɜ dottorandɜ in base al numero di pubblicazioni – il sistema chiamato publish or perish, pubblica o muori.

Nonostante questo argomento sia oggetto esplicito della serie di articoli, mi ha stupito quanto profonda e ampia sia l’influenza di questo sistema. Profonda perché ha un effetto su tutti i campi della carriera delle persone che fanno un dottorato: vari testi parlano dell’insoddisfazione nel lavoro di unə dottorandə, sia esso la scrittura di testi scientifici (Anke Snoek), la collaborazione con altre persone del proprio dipartimento (Friedrich M. Götz), lo sviluppo e la condivisione delle proprie abilità tramite portfolio (Matthew J. C. Crump), ma anche delle possibilità di carriera dopo il dottorato sia dentro (Jennifer L. Lavers) che fuori dall’accademia (Kyle J. Isaacson). Anche a un livello non professionale ma personale, lo stress portato dalla valutazione ha effetti sulla stessa vita delle persone che fanno un dottorato, sul loro benessere mentale e sulle loro relazioni: unə autricə (Toby Bartle) parla esplicitamente del tralasciare sonno, esercizio, divertimento e relazioni personali nel tentativo di avere successo nel contesto accademico, spintə alla competizione costante dalla valutazione della performance; sono poi molti gli articoli dove si citano gli elevati livelli di disagio psicologico nella popolazione di dottorandɜ, in particolare se legati a condizioni di marginalità quali il non essere eterosessuali o cisgender (Alon Zivony).

L’influenza del publish or perish è poi molto ampia perché ha permeato tutta l’istituzione scientifica minandone – più o meno a seconda dell’articolo – le fondamenta. La pubblicazione è diventata l’obiettivo stesso delle istituzioni scientifiche, e questo porta a varie conseguenze negative, che in generale possono essere definite come “cattiva” scienza (bad science). Afferiscono a questa categoria la ricerca di risultati significativi attraverso pratiche non trasparenti (Nick Yeung, Hannah Hobson, Ava Kiai), il bias contro la pubblicazione di risultati negativi (Felix Schönbrodt), la scelta di domande di ricerca semplici o estremamente specialistiche (Taya A. Collyer), il relegare ambiti di ricerca pionieristici ma marginali in riviste meno importanti (Pia Dietze et alia), la poca importanza data alla disseminazione dei risultati (Sandra Obradović, Abhishek Kar).

Le singole persone e il progetto scientifico che, tutte insieme, cercano di costruire sembra quindi stretto nella morsa di quello che definirei una logica del valore. Tanto quanto la merce nella teoria economica marxiana, la pubblicazione diventa il contenitore del valore scientifico misurabile e scambiabile con altri contenitori teoricamente equivalenti, e dalla pubblicazione quale punto intermedio in un processo scientifico più generale si passa alla ricerca come mezzo per ottenere la pubblicazione. Mi riferisco alla logica del valore perché credo dia un senso alle numerose conseguenze di questo processo e alle diverse scale su cui esse sono percepite, e perché permette di inquadrare le soluzioni che vi sono proposte nei vari articoli.

Trasversale a questi articoli è l’interesse verso il benessere delle persone e verso la bontà della loro ricerca opposto alla logica della misura delle pubblicazioni: la Scienza e la felicità di chi vi partecipa sembrano essere due obiettivi strettamente legati, sia questo sostenuto genuinamente o in modo apologetico rispetto alla necessità di una maggiore sostenibilità del lavoro intellettuale. Ciononostante, si identificano tre principali campi in cui si situano le soluzioni proposte, definiti rispetto alla maggiore o minore radicalità della critica al meccanismo della valutazione delle pubblicazioni. In alcuni testi questa mercificazione è espressamente indicata come un problema, se non da risolvere, almeno da “superare”, riportando lɜ dottorandɜ e i loro bisogni necessariamente specifici e situati al centro della discussione, dando più tempo a chi fa ricerca (Pia Dietze et alia), preoccupandosi maggiormente del loro benessere psichico (Alon Zivony) e rendendo formazione e deontologia degli obiettivi espliciti (Ava Kiai). Rispetto a queste soluzioni più “massimaliste”, ma anche molto generali e vaghe, si trovano molte soluzioni “riformiste”, che mirano a riallineare i criteri di valutazione ai valori umani e scientifici: dare più peso alla comunicazione e a pubblicazioni non esclusivamente in riviste internazionali (Sandra Obradović, Abhishek Kar) alle capacità acquisite da chi ha completato un dottorato (Nick Yeung), al lavoro di editing (Anne-Marie Coriat). È poi presente un ultimo tipo di soluzione che ha un taglio “trasformativo”, e si presenta come più elaborata e condivisa rispetto alle altre due, specialmente se si tiene conto della sua maggiore specificità. L’adozione di criteri di trasparenza e pre-pubblicazione del progetto di ricerca, legata a una modifica degli standard e delle pratiche di formazione dellɜ dottorandɜ, unita a una maggiore valutazione per chi adotta queste pratiche e a strumenti specifici per mettere in atto questo tipo di cambiamento è condivisa da moltɜ autricɜ (Andrea H. Stoevenbelt, Hannah Hobson, Felix Schönbrodt, Anne-Marie Coriat, Ava Kiai). La scienza “aperta” e trasparente (open science) sembra essere, nei testi di chi la sostiene, un modo per non modificare l’attuale sistema di valutazione nella forma, ma di trasformarlo nella sostanza rendendo necessarie pratiche più lente e rigorose e basate sulla qualità – sia dei risultati che, in un certo senso, della vita di chi li ottiene.

In un’ottica meno analitica e più personale, la lettura di questa serie di articoli mi ha fatto sentire maggiormente parte di quella che, mantenendo la lettura marxiana data sopra, potremmo definire una “classe” oppure, in modo meno politico, una “comunità”. Sapere che anche altre persone vivono le mie stesse ansie legate al dottorato ha dato sollievo al senso di solitudine e alienazione che sento ponendomi nel contesto accademico; allo stesso tempo leggere alcune delle elaborazioni sulle cause sistemiche di queste condizioni mi ha dato maggiore consapevolezza della mia situazione e di cosa si potrebbe fare per migliorarla. Come fa notare Taya Collyer, è però presente una grande ironia: nonostante dai testi emerga una sincera volontà di cambiare l’attuale sistema e un forte interesse verso lo sviluppo di soluzioni al di fuori e oltre il publish or perish, la raccolta è pubblicata in una rivista altamente prestigiosa, il cui eventuale peso in un CV è stato sicuramente una parte della motivazione per cui molte persone hanno inviato i loro contributi. Come in ogni processo di transizione da un sistema a un altro, è quindi difficile distinguere il nuovo e l’alternativo dall’esistente, e molte cure apparentemente efficaci potrebbero rivelarsi peggio della malattia – rimane da sperare che, in modo simile all’ideale scientifico, dai vari tentativi e sperimentazioni proposti emerga un sistema migliore di quello attuale.