Di corridoi grigi e come uscirne

Antropologia della tecnica pt. 1

La stella cometa sotto cui nasce questo blog è quella di un corso che sto seguendo in questi primi mesi del mio dottorato, e che ho scelto seguendo un consiglio datomi dal mio supervisor. Il consiglio era di scegliere almeno un corso che fosse molto fuori dalle mie competenze ma io, che sono sempre un piede dentro e un piede fuori dai corridoi (devo dire alquanto tristi dal punto di vista estetico) del Poli, l’ho preso come un passe-partout per prendere una boccata d’aria aperta in una materia meno “da ingegnere”.

Ho scelto quindi di seguire il corso “Antropologia della tecnica“, tenuto dal prof. Vittorio Marchis, e penso di aver colto nel segno. Il professore ce l’ha presentato proprio come un’occasione per uscire dal corridoio grigio e asettico della scienza/ingegneria accademicamente intesa, per affrontare il rapporto tra umanità e techne – cioè tra l’umano e le cose che fabbrica e usa. Un argomento su cui, a dire il vero, penso e scrivo già da un po’ di tempo e su cui pensavo di sapere molto e dover imparare poco – neanche a dirlo, avevo completamente torto, ma ci tornerò più avanti. Ad ogni modo, è un corso abbastanza sui generis, e in modo molto autoconsapevole.

Prima di spiegare come, bisogna innanzitutto parlare dell’aspetto fondamentale del corso, che come tutti sanno è:

Com’è l’esame?

Non è un esame orale, né un esame a crocette e neanche un report di qualche tipo. Si tratta invece di arrivare a scrivere un testo che insieme a quelli prodotti dagli altri dottoranti verrà raccolto in un volume pubblicato dalla casa editrice Mimesis, nella raccolta “Incontri con le macchine”. E poi dicono che farsi pubblicare è difficile.

Lo stile della pubblicazione è in linea con l’approccio meta-scientifico del corso, che è un modo più carino di dire che il corso è sui generis, che a sua volta è un modo più carino di dire che per essere un corso al Poli è un corso strano. Insomma, non capita tutti i giorni che alla prima lezione il prof ti faccia giocare con dell’argilla (che, ci ha assicurato, non macchia).
Meta-scientifico si diceva, che per noi aridi ingegneri o presunti tali vuol dire scrivere qualcosa senza calcolare per una volta un p-value o fare un’analisi numerica. Meta, quindi non tanto nel senso di essere autoreferenziale (sono studi meta-scientifici quelli che valutano in modo scientifico lo stesso metodo scientifico cercando di migliorarlo), ma nel senso di andare oltre. Superare i confini di una disciplina portandosi qualche strumento sottobraccio e vedere cosa si può trovare; un meta simile a quello del metamodernismo di cui ho parlato spesso con Meta Me.

Uno strumento fondamentale di questo approccio è la narrazione: la narrazione, come ci ha detto Vittorio durante la prima lezione, è infatti alla base di ogni processo di comunicazione. Anche quella scientifica, che non si basa solo sulla spiegazione in quanto tale, ma su forme (certamente molto codificate e spesso oscure) di narrazione. Attraverso le varie tecniche che ci ha presentato il prof, e che applicherò a mia volta via via, struttureremo quindi una narrazione – che può essere anche visiva e musicale – sul rapporto tra umano e oggetto tecnico. Nello specifico, produrremo un testo (testo inteso come insieme di segni intelligibili, quindi dal testo scritto fino all’opera lirica) incentrato sul rapporto con un oggetto specifico (quale? lo racconto nel prossimo post, insieme a una mia bella lezione di modestia).

Ecco quindi l’obiettivo del corso. Ma devo dire che mi piace pensare che questa esperienza non sarà solo divertente , ma che una volta finita non rientrerò nei corridoi del Poli come ne ero uscitə. Anche adesso, se penso che quando calcolo regressioni o autocorrelazioni non sto solo facendo “scienza”, ma sto anche raccontando una storia, mi sento già meno solə nel mio percorso di dottorato. Rimarrà forse un percorso un po’ austero e freddo, ma almeno seguendo questo esame ci potrò appendere un bel quadretto – o mettere un tappeto, che si sa “dà un tocco all’ambiente”.